“Le vite degli altri”

Un abile e inflessibile agente della Stasi si ritrova a spiare, ascoltare e registrare la vita di George Dreyman, uno scrittore apparentemente rispettato e ammirato dagli alti capi del partito, ma che il ministro della cultura Bruno Hempf cerca di incastrare perché si è invaghito della sua compagna, una bellissima e amata attrice teatrale…

Vivere le vite degli altri e non poter vivere la propria, rifugiarsi dietro ad un paio di cuffie e negare di essere qualcuno, per fare carriera semplicemente “ non facendo”, apparentemente il modo più facile. Come il protagonista di questo bel dramma tedesco, uno dei tanti collaboratori della Stasi, che si riappropria di una vita solo dopo aver lasciato in pace quella altrui, scegliendo una mediocre ma onorevole umiltà, al posto di una sporca ascesa sociale.

Non ci poteva essere titolo più azzeccato per l’opera prima di Florian Henckel von Donnersmarck, un film sul guardare senza essere visti, che, con occhio compassionevole verso chi per primo dovrebbe essere il carnefice di turno, indaga i retroscena paradossali dell’agenzia segreta che si propone di difendere il socialismo attraverso il carrierismo e il clientelismo, simbolo di uno stato minato dalle fondamenta del suo stesso cuore ideologico, dove l’ideale come motore portante ha ceduto il passo alle esigenze dei potenti, dove i nemici se non ci sono si creano e si inventano, in modo da ottenere la giusta dose di sangue e di talenti gettati al vento che faccia aggiungere le decorazioni sulla spalla di qualche meritorio ufficiale.

“Le vite degli altri” è un dramma robusto e corposo scritto magistralmente, diretto con compostezza e mestiere, pur senza grandi pretese artistiche, e con personaggi ben caratterizzati, stretti da una scelta obbligata tra carriera e onore, tra il silenzio compiacente e la lotta ideologica, soffocati dall’insostenibile reticolo di microspie e cimici di un grande fratello onnipresente. Il film è ambientato quasi tutto in interni grigi e intristiti, e possiede un grande equilibrio di scrittura: gli umori e le scelte dei personaggi sono comprensibili nell’ottica di chi è in una comoda posizione e ha bisogno di un severo scossone per riaprire gli occhi, o di chi si trova costretto a sacrificare qualcosa per qualcos’altro. E quando la sobrietà diventa eccessivamente monocorde il film di colpo impenna, e si trasforma in un thriller dove il paradosso trasforma una macchina da scrivere nel principale corpo del reato, un crimine costituito dal giustificato dubbio e dall’impegno, che ferisce la prevaricazione con lettere in grado di far sanguinare una società sull’orlo del collasso, per concludersi in modo nostalgico e al contempo speranzoso.

da non perdere…